Wednesday, July 27, 2005

La bambina che giocava col cerchio

La bambina che giocava col cerchio

di Maria Teresa Magliozzi
(in arte Virgoletta)


Adoravo giocare nel buio.
Adoravo il momento in cui scendevano le tenebre, e le nostre mamme tardavano a chiamarci, e mille piccoli pipistrelli neri, impossibili a vedersi nitidamente, cominciavano a volteggiare attorno ai lampioni.
Potevamo giocare mille giochi, con il buio che ci avvolgeva poco a poco nella flebile luce del crepuscolo, lo sguardo che si aguzzava e lo spazio di cui diventavamo padroni in maniera nuova.
Abitavamo in una tranquilla strada che finiva in uno slargo: sulla destra la discesa del garage del civico 27, dove una volta Beatrice, la mia Pecora Nera, m’aveva spinto giù a rotta di collo, su una vecchia carriola arrugginita: e mia madre, in ciabatte, col grembiule, le mani ancora gocciolanti acqua saponata, s’era precipitata di colpo, spinta da un presentimento, come altre volte nella sua vita.
Ero incolume.
Ma che paura!
Era Pistoia, la mia via: Fratelli Bandiera, proprio come le Sorelle Bandiera di Fatti più in là, pensavo io. Massimo, Elena, Elenina, Stefanino, Serena e Beatrice: erano loro i primi compagni di gioco, i primi amori, le prime amiche e rivali di Maria Teresa Virgoletta.
Che sarei io.
La virgoletta ce l’ha messa Zio Peppino, per separare, diceva lui, i miei primi due dal terzo nome: Anna. Come Nonna Nina, la collezionista di bambole, l’amante delle rose, colei che attaccava i ritagli di fiori, come da catalogo, sulle pareti della verandina (orrore, diceva mia madre).
E io che, pochi anni dopo, per fedeltà a Lulù, postuma Figlia dei Fiori, avrei fatto altrettanto, serbando però i miei preziosi ritagli in candide bustine bianche da visita.
Il buio, dicevo.
Ci avvolgeva, ci faceva sentire onnipotenti, fra la discesa, e l’orto delle fragole, e il campicello del contadino Cesco al di là del fiumicello (campo proibito, in quanto dovevamo attraversare, per raggiungerlo, un fragile ponticello, ma proprio per questo mille e mille volte più attraente).
Era nascondino il favorito fra tutti i nostri giochi. La difficoltà, accresciuta dalle tenebre, lo rendeva di gran lunga più affascinante che non alla luce del giorno. Ricordo l’emozione e il desiderio di far pipì che mi prendeva quando Massimo mi passava vicino senza notarmi, e io che correvo alla tana gridando a perdifiato “Tana libera tutti! Tana libera tutti!”.
Poi la lasciai.
Lasciai Pistoia, l’eden, il mio Paradiso Perduto.
E trovai Roma, l’accogliente, la gelida.
Erano passati degli anni. Non avevo più spazi, resi sconfinati dalla mia immaginazione, da giocare, ma un tranquillo giardino, con alberi su cui arrampicarsi e un grande abete su un pianerottolo rialzato, in terra battuta, tondo, circondato da un muretto di pietra.
Era lì che Flavia, Maria ed io facevamo le nostre casette di aghi di pini. E quando era sera, richiamate, salivamo su a casa, la migliore, da giocarci, era la grande stanza della piccola Maria.
Dove continuavo la tradizione del Nascondino al Buio, spegnendo la luce e cercandoci a tastoni.
Finchè un giorno non la vidi, nell’atto di spegnere la luce: la Bambina che Giocava col Cerchio, una svelta figurina di luce con l’abito corto alle ginocchia, gli stivaletti ed in mano l’immancabile gioco.
Mi guardava.
Lo dissi a Maria, la piccolina, che allora avrà avuto 9 anni e che mi piagnucolò: “Me la sognerò la notte!”.
Ma io sapevo che lei era lì, dove aveva giocato 80 anni prima, prima che in via Luigi Civinini, al civico 135, sorgessero i palazzi: e con la sua energia aveva dato l’impronta al luogo, e noi bambine, giocando al buio, l’avevamo semplicemente richiamata ad essere.
La bambina che giocava col cerchio.
L’essenza stessa del Gioco Puro, e incontaminato.

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